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Scheda del prodotto


Costruttore: Apple
Categoria: Personal computer
Luogo d'origine: USA
Anno produzione: 1984
Catalogato nel: 2025, per gentile concessione di Renzo Gemignani
Dati tecnici: CPU Motorola 68000 a 8 MHz (16 bit); Sistema operativo Mac OS; memorizzazione dati su floppy disk da 3,5" da 400 KB; monta un HD Hyperdrive da 10 MB; Ram 128 KB espansa a 512 KB tramite HyperDrive. Software incluso: MacPaint e MacWrite


Descrizione

Nel gennaio del 1984, Apple presentò al mondo uno dei prodotti più emblematici della sua storia: il Macintosh, più tardi noto come Macintosh 128K. Non fu solo un nuovo computer, ma un manifesto ideologico, un simbolo di rottura con il passato, un'alternativa al dominio crescente dei PC IBM. La sua nascita fu annunciata con uno spot pubblicitario andato in onda durante il Super Bowl XVIII: un cortometraggio diretto da Ridley Scott e ispirato al romanzo "1984" di George Orwell. In quel video, una giovane donna lanciava un martello contro un grande schermo che raffigurava un oratore totalitario, liberando così gli spettatori da un mondo grigio e oppressivo. Era un chiaro messaggio: Apple si presentava come la forza ribelle che avrebbe liberato l’informatica dalla noia burocratica incarnata da IBM, portando l’innovazione nelle mani della gente comune.
Ma per capire la portata di quel momento, bisogna risalire a qualche anno prima, quando Steve Jobs, dopo essere stato inizialmente coinvolto nel progetto Lisa – il primo computer Apple dotato di interfaccia grafica, di scarso successo a causa del costo elevatissimo – fu progressivamente allontanato. Nonostante l'esclusione, Jobs comprese a fondo le potenzialità di un'interfaccia a finestre controllata da un mouse, ispirata al lavoro svolto al Xerox PARC. Così decise di dirigere un piccolo gruppo di ingegneri in un progetto parallelo e più radicale: creare un computer compatto, economico, amichevole, pensato per il grande pubblico. Nacque così il progetto Macintosh.
Fin dal principio, il Macintosh fu pensato per essere diverso. Non solo nei contenuti, ma anche nell’aspetto. Il design era compatto e lineare, con monitor, floppy drive e scheda madre racchiusi in un unico case color beige. Sulla parte superiore spiccava una maniglia integrata, che dava al computer un'aria trasportabile, quasi domestica. Era una macchina pensata per stare sulle scrivanie di artisti, insegnanti, giornalisti, per diventare un oggetto della quotidianità, non un apparato da sala macchine. All’interno, batteva il cuore di un processore Motorola 68000 a 8 MHz, accoppiato con 128 kilobyte di memoria RAM. Era una quantità di memoria modesta, persino per l’epoca, ma sufficiente per eseguire applicazioni grafiche basilari e gestire un’interfaccia utente completamente visuale.
Il Macintosh 128K offriva un display integrato a fosfori bianchi, monocromatico, con una risoluzione di 512×342 pixel su uno schermo da 9 pollici. Questa risoluzione, all’epoca sorprendentemente nitida, permise l’utilizzo di una grafica chiara e leggibile, rendendo possibile il concetto di "ciò che vedi è ciò che ottieni", o WYSIWYG. Proprio su questa idea si fondò il successo delle due applicazioni che Apple rilasciò con il sistema: MacWrite e MacPaint. La prima permetteva di redigere testi con formattazione visiva, la seconda offriva un ambiente grafico semplice ma potente per disegnare, ritagliare, riempire e stampare. Erano strumenti straordinari, non perché potenti, ma perché intuitivi. Bastava un mouse e qualche clic per ottenere ciò che prima richiedeva righe e righe di comandi testuali.
Quella del mouse fu una delle innovazioni più dirompenti. Sebbene non fosse una novità assoluta – il mouse era già stato utilizzato su Lisa e sperimentato al Xerox PARC – era la prima volta che un computer di massa lo adottava come metodo principale di input. Il mouse del Macintosh era semplice: un solo pulsante, ergonomia essenziale. Jobs lo volle così per evitare confusione, per abbattere ogni barriera. Anche la tastiera era volutamente minimalista: priva di tasti funzione, frecce direzionali o tastierino numerico. L’obiettivo era forzare gli utenti a usare la nuova interfaccia grafica. Niente scorciatoie, niente schemi mentali tipici dei terminali. Un nuovo inizio.
La filosofia progettuale di Jobs influenzò anche aspetti più nascosti, come la cura riposta nella scelta dei caratteri o l’assenza di una ventola di raffreddamento. Il Macintosh 128K era del tutto fanless: una scelta estetica e simbolica, che però causava alcuni problemi di surriscaldamento e ne riduceva, col tempo, l'affidabilità.
La struttura software era altrettanto rivoluzionaria. Il sistema operativo, noto come System 1.0, incorporava un desktop grafico con cartelle, file e cestino. L’interfaccia era resa possibile grazie a una ROM da 64 KB che conteneva le routine grafiche di base, affiancata da un disco floppy da 400 KB, unico mezzo di memorizzazione. Il disco conteneva anche il Finder, un’applicazione che consentiva di navigare visivamente tra i file e di lanciare le altre applicazioni. Era tutto pensato per evitare l’uso del prompt, rendendo l’accesso al computer simile all’esperienza di usare un elettrodomestico.
Nonostante le aspettative, le vendite del Macintosh non furono esplosive quanto previsto. L’interesse iniziale fu fortissimo – nei primi mesi si vendettero oltre 70.000 unità – ma poi la curva rallentò bruscamente. I limiti hardware si fecero presto sentire: la memoria non era espandibile, il drive singolo imponeva frequenti scambi di dischetti, e il software disponibile era ancora molto scarso. Inoltre, molti utenti professionali erano abituati all’espandibilità dei PC IBM, alla possibilità di aggiornare memoria, schede video, hard disk. Il Macintosh, invece, era una scatola chiusa alla stregua di un elettrodomestico, tanto affascinante quanto rigida.
Il pubblico ideale non era il programmatore o il manager tecnico, ma l’insegnante, il grafico, il giornalista. Apple, infatti, investì pesantemente nella promozione presso il mondo dell’istruzione e della creatività. Non a caso, il Macintosh è anche ricordato come il primo computer ad aver reso possibile il desktop publishing: la combinazione tra interfaccia grafica, stampanti laser (come la LaserWriter, introdotta nel 1985), e software come PageMaker, permise a piccole aziende e privati di realizzare riviste, volantini, brochure con una qualità prima impensabile senza una tipografia.
Per cercare di correggere i difetti della prima versione, nel settembre 1984 Apple introdusse il Macintosh 512K, soprannominato “Fat Mac” per via della maggiore dotazione di memoria. Ma ormai era chiaro che il modello 128K era solo l’inizio, una sorta di manifesto più che un prodotto completo. Nonostante ciò, la sua influenza fu profonda. Fu il primo computer ad avvicinare veramente le persone comuni all’informatica, il primo a considerare seriamente l’esperienza d’uso, il primo a trattare il design non come un lusso ma come una necessità.
In retrospettiva, si potrebbe dire che il Macintosh 128K non ha avuto il successo commerciale immediato che Apple si aspettava, ma ha avuto un successo culturale ineguagliabile. Ha cambiato il linguaggio con cui si parlava di computer. Prima del Mac, un computer era qualcosa da programmare. Dopo il Mac, era qualcosa da usare. L’interfaccia grafica, le metafore visive, il puntatore, le icone: tutte queste innovazioni sono oggi considerate normali, ma nel 1984 erano un salto concettuale enorme.
Il Macintosh non ha solo introdotto nuove tecnologie, ma ha anche introdotto un nuovo modo di pensare la tecnologia. Non più fredda, distante, specialistica, ma vicina, intuitiva, personale. Era davvero un “personal” computer, nel senso più profondo del termine.
Oggi, a distanza di decenni, il primo Macintosh rimane un oggetto di culto, presente nei musei, nei documentari, nelle collezioni. Ma il suo valore va ben oltre la nostalgia. È stato il primo passo verso l’informatica per tutti, un progetto nato dall’ambizione di rendere il computer un oggetto umano, amichevole, quasi emozionante. E in questo, al di là delle specifiche tecniche o delle vendite effettive, ha avuto successo. Ha cambiato per sempre il nostro rapporto con le macchine.


Particolarità

Sul pannello posteriore, visibili solo a contenitore aperto, sono presenti le firme di tutti i progettisti del Macintosh, inclusa quella di Steve Jobs.

 
 

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